Cultura

Cultura (206)

Le case signorili si distinguevano dalle case dei "cafoni" per una molteplicità di elementi:
- l'estensione, il numero dei vani e la collocazione a primo piano;
- la configurazione e la distribuzione degli spazi esterni ed interni;
- la presenza di un cortile interno più o meno ampio;
- la presenza di una scalinata più o meno importante per accedere dal cortile al piano nobile;
- l'arredo e la decorazione degli ambienti;
- la presenza di un portone di ingresso più o meno grande.

Il primo segno distintivo esterno che si notava avvicinandosi all'abitazione era il portale che ornava l'ingresso. La grandezza e la decorazione rivelava il grado sociale di appartenenza di chi vi abitava. Un portale litico ad arco denotava una casa di notabili: 
a) quelli grandi che consentissero il passaggio di una cavalcatura o di una bestia da soma a pieno carico e decorato con sculture e stemma gentilizio segnalavano l'ingresso di abitazioni tipo "domus" con cortile interno, proprie di notabili di alto rango;
b) portali grandi non decorati ma con stemma gentilizio e con cortile interno indicavano abitazioni di notabili di secondo rango;
c) portali litici normali anche decorati con sculture e stemma gentilizio, anche se non consentivano il passaggio di un animale da soma carico, segnavano l'ingresso di abitazioni di notabili di terzo rango;
d) portali litici non decorati di grandezza normale segnalavano le abitazioni di notabili di quarto rango;
e) portali ad arco realizzati in  malta di calce indicavano le case di non notabili ma di ricchi proprietari terrieri o di benestanti artigiani.

Portali monumentali:
- portale litico scolpito della casa Lomonaco, a 'Mbedilaterra;
- portale li
tico della casa Perrelli, in corso Garibaldi, fra il palazzo Casapesenna e la Chjàzza;
- portale litico interno del palazzo Casapesenna;
- portale litico con nervature della casa Lagamma, a inizio via di Mìenzu;
- portale litico della casa d'Arleo, in via Tirrone;
- portale litico scolpito della casa Grassi, in vico Garibaldi II;
- portale litico con nervature della casa Leone, a inizio via Carroli;
- portale litico della casa Marsiglia, in zona Grangìja a fine via Carròli;
- portale litico a conci bugnati del chiostro del Convento, in  zona Capulischéali.

Pàvulu, nu sfatighéatu! …, nu gguadàgna e la mugljéri nun téni ssòldi pi fféa’ la spìsa.
Nu jùornu dìcid’ànna mugljéri:
- Rusiné, gòji avéra vòglja di nu piàttu di fusìddi cunzòati cu lu sùcu di zazìcchju!
La mugljéri ri rispònni:
- Lu zazìcchju tùva! Si nun fatìgasi e nu gguadàgnasi nun putìemu accattéa’ màngu la farìna!
Pàvulu nun po’ rispònni e sìnni jìessidi.
Passénnu sùtta la chéasa di Giséppu lu mastidàsciu ànna Casalavécchja, vìdi Marijànna  ànna finésta, ra salùta e dìci:
- Stanòtti m’éggiu nzunnòatu la bon’anima di zu Gàngiulu chi mmangiàva nu piàttu di fusìddi cu nu zazicchjòttu da sùpa - 
Marijànna pénzad’ànnu pòatri ..., vò stòa’ ‘m baravìsu, chi, ghèa’ bisùognu di dimbrìscu, cu ru po’ ssapì, a quiràtu mùnnu. 
- Tòrna stasìra – ri dìci.
Sùbbitu pìglja la tàvula, mbàsta la farìna, sténni la pàsta e, cu lu jàcculu sùtta li pàrmi di li mèani , arròta li fusìddi a gùn’a
gùnu. Mìttid’a fféa’ lu sùcu e ci mìtti dajìnda trùozzi di zazìcchju. L’addùru si sìendi pi ttùttu lu vicinànzu.
Prima di sìra mìtti la cassaròla sùpa lu fùocu e, quànnu vùddi, ci jétta li fusìddi. Nun èrani angòra cùotti e Pàvulu s’apprisénda,
nun s’avéd’allundanéatu. Sàglji pùru Giséppu da la putìja. Pàvulu màngiad’a ssàzijitéa’: prìma li fusìddi e puòji lu trùozzu di
zazìcchju. Nun avié mangiéat’accùssì chi nun ni sapiè li tìembi…, dd’ùocchji ri jìessini dafòra …,
- Sìja dimbrisc’chéata la bon’àrma di zù Gàngiulu! – murmùrìja pi ringraziaméndu.
A nnòtti, dòppu nu ggìru jìnda la candìna, Pàvulu tòrnad’ànna chéasa …
- Rusiné …, ghéggiu mangéatu cérti fusìddi chi nun ti dìcu! – dìcid’ànna mugljéri.
- Addùvi r’éji mangiéati? – addummànna Rusinédda.
- M’è mmitéatu Giséppu lu mastidàsciu – rispònni.
E la mugljéri:
- Ah disgrazzijéatu! ... Pùr’a quìru cristijéanu ghé jùtu a nzurtòa’! ... Ah chi scruccùni! … Tu ti jinghìesi la vréndi e gghìju spandichijàva di féami! –
Pìglja la scòpa e ru tunghitìjadi ‘n chéapu.

 

Questa è una raccolta di canti e filastrocche in uso a Tortora messami a disposizione da Maria Teresa Aurelio. Molti di essi sono comuni ad ambiti più o meno ampi a livello territoriale o regionale o interregionale. Cantati in dialetto tortorese con qualche piccola concessione fonetica all'uso di un dialetto comune all'area nord della Calabria.
Nell'accoglierli mi sono limitato solo a trascriverli in dialetto secondo le regole della nostra fonetica.
Esistono per la verità altre due diverse raccolte di altri canti dialettali tortoresi: una pubblicata dai fratelli Cozza Rosetta e Michele, l'altra di Annina Maceri pubblicata a cura della Scuola Elementare di via Falconara alla quale ho contribuito con la trascrizione in dialetto nel rispetto delle regole della fonetica tortorese.

Questa piccola antologia di brevi racconti è tratta dal libro 'Fàtti chi si cùndani' in cui ho raccolto scenette più o meno comiche raccontate attorno al focolare per passare il tempo nelle lunghe serate invernali assieme a parenti e vicini soli, che venivano a socializzare presso le famiglie più numerose, dando anche una mano nei lavori di spoglio e sgranatura del granturco o di sbaccellatura dei fagioli.

Questa piccola raccolta di detti è un florilegio tratto da una raccolta molto più estesa, da me pubblicata nel libro 'Il colore delle parole'. Alcuni, nel significato, trovano riscontro nei dialetti di altri paesi compresi in aree più o meno estese, altri sono propri del nostro idioma.
Si tratta di espressioni proverbiali che si prestano ad un commento a volte esplicativo, altre volte semiserio.

Questo florilegio di vocaboli non è il più rappresentativo del vocabolario tortorese, ma certamente ne dà un'idea. Si tratta di lemmi che si prestano ad un commento, a volte serio, altre volte tra il serio e il faceto.  

Annotando l'etimologia dei vocaboli tortoresi si rileva che la base del dizionario tortorese è la lingua latina, conseguenza della lunga permanenza della civiltà romana nel nostro territorio, a partire dal 200 a.C. fino al VII sec. d.C. . Ma anche dopo questo termine la latinità continuò qui a perdurare grazie alla presenza forte della Chiesa erede naturale dell'impero romano e alla derivazione etnica della popolazione degli abitanti di Blanda latina.
Successivamente si sono depositati su questa base termini provenienti dalle lingue dei vari dominatori di turno o da piccole minoranze esterne innestate nel contesto sociale di Tortora per motivi che via via sanno esposti.
Comunque questi apporti sono stati molto limitati.

La cucina tortorese e le sue ricette sono quelle tipiche della tavola contadina, confezionate con i prodotti dei campi, degli orti e degli animali d'allevamento. Fra i prodotti dei campi emergevano l'orzo, il farro, il grano, il granturco, l'olio d'oliva. Fra gli ortaggi il posto d'onore era occupato dai legumi, seguivano i pomodori, i peperoni, le melenzane, le verdure, le cucurbitacee. Fra gli animali il primo posto toccava al maiale allevato da tutte le famiglie del paese, della marina e delle montagne, tranne da quelle più indigenti; in secondo luogo in montagna venivano gli ovini e come derivato il formaggio pecorino e caprino.

L'arredo della casa era confacente alla posizione sociale delle famiglie. I notabili e i professionisti abitavano in case ampie con molteplici vani arredati con mobili in stile secondo la moda del tempo: letti in alcove con baldacchino, comò e armadi con intarsi, tavole da pranzo lavorate, cristalliere ampie e specchiere arricchite con sculture, divani e poltrone con rivestimento di stoffa damascata, servizi di stoviglie in  porcellana fine con decorazione in rilievo e pitture, ecc.
Qui però riportiamo l'arredo essenziale delle case rustiche e spartane dei contadini e degli artigiani.

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