Note fonetiche

Il dialetto tortorese, come parecchi altri dell’Alto Tirreno calabrese, presenta alcuni suoni di non facile trasposizione grafica. Si tratta di due suoni vocalici e di due suoni consonantici. 
         Il primo suono vocalico 'éa' in posizione tonica è una vocalizzazione intermedia tra la ‘e’ e la ‘a’. Si pronuncia cominciando con una ‘e’ nasale simile al suono ‘eu’ francese e passando con una modulazione continua ad una ‘a’, tronca e appena accennata se in fin di parola (infinito dei verbi di prima coniugazione), ben articolata se in mezzo alla parola. 
         Il secondo suono vocalico 'òa' in posizione tonica è una vocalizzazione intermedia tra la ‘o’ e la ‘a’, variante del suono ‘éa’ dopo sillaba che termina in ‘u’ o in 'ò' accentata. Si pronuncia cominciando con una ‘o’ e passando con una modulazione continua ad una ‘a’, tronca e appena accennata se in fin di parola (infinito dei verbi di prima coniugazione), articolata se in mezzo alla parola. 
        I due suoni bivocalici 'ea' e 'oa' diventano 'a' quando la sillaba diventa atona o quando precede due consonanti: es. 'n chéapu' , 'nu còapu' (sillaba tonica che precede una sola consonante); 'capammùndi', 'capudàcqua' (sillaba atona); càndaru, gàtta, màssa, màmma, castàgna, mundàgna, gàccia, vàrca, màrmu, màstu, màttira, vàrda (sillaba tonica che precede due consonanti).
         Il primo suono consonantico è ‘sc’, costrittiva prepalatale sorda o sibilante palatale, davanti a ‘c’ velare o a ‘q’.
         Il secondo suono consonantico e ‘jh’, velare simile al ‘ch’ tedesco nella parola ‘ich’, in uso fino a inizio del 1900 e poi caduto rapidamente in disuso e sostituito a volte dal suono ‘g’ velare, altre volte dal suono ‘sc’ come nella parola italiana ‘sci’. 
        
         Per rappresentare graficamente questi suoni dialettali mi sono attenuto ai seguenti principi:
1 – utilizzare unicamente le lettere dell’alfabeto latino, assunte poi nell’alfabeto taliano.
2 – attenermi alla regola dell’uniformità grafica, per la quale un suono va rappresentato sempre con la stessa lettera o con lo stesso gruppo vocalico o consonantico in tutti i contesti letterali. 

         Il primo e il secondo suono vocalico (‘éa’ e ‘òa’)  sono un’alterazione della ‘a’ tonica latina: es. méanu o mòanu, méaru o mòaru, chjéanu o chjòanu, pagliéaru, prigulòara, prighéa’, purtòa’, ecc. (mano, mare, piano, pagliaio, pergolato, pregare, portare). 

         Nel caso del primo suono consonantico sibilante palatale ‘sci’ seguito da ‘c’ velare o ‘q’, in osservanza dei due principi su esposti, era necessario mantenere il digramma ‘sc’ che rappresenta lo stesso suono presente in ‘scìnni’, ma se avessi scritto sccaròla o sccàffu o scquéatra chiunque avrebbe letto ‘s’ seguita da doppio ‘c’ velare. Per significare al lettore che le due ‘c’ hanno valore fonetico diverso, che la prima fa parte del digramma ‘sc’ con suono sibilante palatale e che la seconda ha il suono velare, sono ricorso all’apice a  significare la caduta della ‘i’: sc’caròla, sc’càffu, sc’quéatra. Questa che credevo essere una mia scelta originale, ho scoperto successivamente, trovandomi tra le mani una sua opera, essere stata già adottata precedentemente dallo studioso Luigi Paternostro di Mormanno nell’opera ‘Gli alti Bruzii e il loro linguaggio’. Questa scoperta mi ha confortato in quanto mi ha dato la conferma che la mia non è stata una scelta capricciosa ma una soluzione intuitiva e pratica che induce naturalmente il lettore a pronunciare correttamente il suono.
Alcuni autori dialettali hanno preferito, irrazionalmente, altri grafemi: per rappresentare i fonemi 'sc'ca', 'sc'co', 'sc'cu', 'sc'qua' alcuni usano il grafema 'shca' o 'shka', 'shco' o 'shko', 'shcu' o 'shku, shqua'; altri usano i grafemi

         Alla soluzione del secondo caso sono pervenuto confrontando due termini tortoresi con i corrispondenti aietani. Nel dialetto tortorese  per indicare ‘fiumi’ e ‘fiori’ si usano i termini jùmi e jùri, con la ‘j’ semiconsonantica. Gli stessi termini nel dialetto aietano sono pronunciati con la ‘j’ velarizzata a somiglianza del suono ‘ch’ della lingua tedesca. La soluzione si è presentata da sé: in latino e in italiano di regola per velarizzare una palatale le si pospone una ‘h’, di qui ’jh’ con valore velare; in caso di raddoppio 'j' e 'jh' diventano 'gghi' , es. sùngu jùtu, ghè gghiùtu (la 'j' raddoppia dopo vocale è tonica). 

         Altre particolarità fonetiche:

      -          ‘mp’ del latino e dell’italiano in dialetto diviene    ‘mb’
    
-          ‘nc’                                                        ‘ng’
    
-          ‘nf ’                                                        ‘mb’  
     
-          ‘ns’                                                         ‘nz’ (ds)
    
-          ‘nt’                                                         ‘nd’
    
-          ‘nv’                                                         ‘mb’
    
-          ‘nz’ (ts) “                                                  ‘nz’ (ds)

La consonante ‘z’ solitamente di pronuncia sorda (ts), dopo la ‘n’ o quando è raddoppiata si pronuncia sonora (ds).

         La vocale iniziale delle parole assume la consonante ‘g’ velare in funzione intervocalica: àccia, gàccia; éssi, ghéssi, ìlici, ghìlici, òra, gòra; ùorcu, gùorcu.
        
La lettera ‘v’ in posizione intervocalica in alcuni casi diventa ‘b’, vìgu, nu bbìgu (vedo, non vedo).
         Di solito la consonante iniziale delle parole, dopo la preposizione ‘a’ e dopo una parola che termina con vocale accentata, tende ad essere raddoppiata: chjù, ghè cchjù mméglia (più, è migliore).
In alcuni casi la consonante non si raddoppia ma cambia il significato della frase:
es. ghè jùtu (seconda persona) = tu sei andato
    
      ghè gghiùtu (terza persona) = egli è andato


Michelangelo Pucci

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